La grande scommessa - #003: Il leone, l'amazzone e il salotto di casa
La grande scommessa
- di Luigi Coluccio -
#003 - Il leone, l'amazzone e il salotto di casa
Ciao,
questa è La grande scommessa, la newsletter di Film Tv sull’industria del cinema e dell’intrattenimento in arrivo nella tua casella di posta ogni giovedì – il giorno del crollo di Wall Street nel ’29 e il giorno propizio al gioco d’azzardo.
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Altra settimana, altro giro, altra vendita lì sulle colline di Los Angeles: l’amazzone ha sconfitto il leone, e Bezos si è comprato anche la MGM, la Metro-Goldwyn-Mayer che si studia al primo anno di storia del cinema. L’indice Death by Amazon è così schizzato di nuovo alle stelle (quelle dei film di una volta), e ora i nostri lettori ci chiedono: cosa è rimasto da vendere a Hollywood?
L’ironia (ciclica) del capitalismo.
“Omero compose l'Odissea; dato un tempo infinito, con infinite circostanze e mutamenti, l'impossibile è non comporre, almeno una volta, l'Odissea” – così profetizzava il cieco fervore di Buenos Aires.
Dato un accumulo illimitato di capitale, l’impossibile è non perpetrare sempre le stesse dinamiche predatorie che sfociano nella concentrazione e nel consolidamento dell’unica cosa che conta – la merce.
Esempio da portare all’esame di storia del cinema, MGM e United Artists.
Lo studios di Leo il Leone (sì, quel leone) nasce nel 1924 quando Marcus Loew, il patron dei Loew’s Theatres, mette insieme la Metro Pictures Corporation comprata nel 1919 con Goldwyn Pictures e Louis B. Mayer Productions, formando un’unica entità dal nome di Metro-Goldwyn-Mayer. In un periodo di tumultuoso sviluppo per l’industria cinematografica americana, dove antitrust e regolamentazione erano ancora lì da venire, la manovra di Loew serviva originariamente a rifornire direttamente di titoli la sua catena di cinema (la più vecchia di tutti gli USA), per poi divenire la formula perfetta per quell’esasperata integrazione verticale che metteva sotto lo stesso tetto produzione, distribuzione ed esercizio, controllando di fatto ogni passaggio della filiera cinematografica – a cui nel 1948 porrà fine al Corte Suprema con l’epocale “Paramount Decree”, che vietava di possedere, assieme, i cinema dove mostrare i film e la distribuzione di questi, regolamentazione annullata ad agosto 2020 dal Dipartimento di Giustizia di trumpiana esecuzione (parleremo anche di questo, annunciamo).
La United Artists era, o meglio, erano gli Avengers dell’epoca: fondata nel 1919 dalle star tra le star Mary Pickford, Charlie Chaplin, Douglas Fairbanks e D.W. Griffith, la compagnia dei fantastici quattro si prefissava di combattere il monopolio, le pratiche anticompetitive e i contratti di esclusiva di quello che poi sarebbe diventato lo studio system imperante nell’industria americana, dando libertà creativa, diritti esclusivi e divisione dei profitti ai propri soci. Mancando i soldi del mercato azionario (nessuna quotazione in borsa) e i rapporti con le banche (nessuna reale struttura organizzativa), lo studios si concentra fin da subito sulla distribuzione, rimanendo un pesce piccolo nel mare di squali hollywoodiano. Poi nel 1924 Joseph Schenck diventa presidente della società e aggiunge alla formazione Gloria Swanson e Buster Keaton, trasformando la United Artists nell’ombrello distributivo indipendente sotto il quale si radunano i più importanti produttori fuori dal sistema, altre star tra le star come Howard Hughes, Darryl F. Zanuck, David O. Selznick, Walt Disney.
Ora, dopo un tempo infinito di 97 e 102 anni, Metro-Goldwyn-Mayer e United Artists – intanto divenute un’unica compagnia nel 1981 sotto il nome MGM – sono arrivate al massimo dell’accumulo, della concentrazione e del consolidamento: il 26 maggio scorso l’Amazon di Jeff Bezos ha annunciato di aver acquistato per 8.45 miliardi di dollari MGM, finendo per concludere l’integrazione verticale di Marcus Loew e l’indipendenza dal resto del sistema cinematografico di Charlot e della Fidanzatina d’America.
Mi si vede di più se compro o non compro?
La notizia arriva nemmeno dieci giorni dopo l’altro Big One (metaforico) che ha scosso Hollywood, cioè la fusione WarnerMedia-Discovery – vicenda smontata e rimontata nel numero #001 de La grande scommessa. Accorpamenti, acquisizioni, vendite, svendite: il panorama industriale e finanziario del cinema americano sembra oramai collassare sulla stessa plastica immagine, cioè la creazione di immense media company con prodotti, strutture e mercati che abbracciano tutto lo spettro dell’intrattenimento globale. Il coup Amazon-MGM potrebbe apparire come una manovra nuova, diversa, perfino radicale rispetto a quanto avvenuto fino ad adesso nel Grande Gioco tra Hollywood, Silicon Valley e Wall Street, e per certi versi lo è visto che si tratta del primo grande acquisto di una tech company nel mondo cinematografico; che indica un’altra via rispetto alla decisione di AT&T di abbandonare il campo con la vendita di WarnerMedia; e che consegna nelle mani di un servizio streaming non hollywoodiano uno dei più grandi franchise della storia hollywoodiana, James Bond. Ma, allo stesso tempo, tutto questo concorre a dipingere sempre un unico panorama, cioè l’ammasso incessante e insaziabile di cataloghi, proprietà intellettuali (IP, intellectual property), brand – in una parola, contenuti – da lanciare e rilanciare a livello globale sfruttando la nuova figura dello spettatore-consumatore attraverso l’unica piattaforma dove tutto è disponibile subito, a chiunque e ovunque – il digitale. E quale migliore aggiunta per Prime Video se non svuotare dentro il suo calderone virtuale una library come quella della MGM, che contiene qualcosa come 180 Oscar e 100 Emmy, agguantati tramite più di 4.000 film e 17.000 episodi tv, per un elenco non solo sterminato ma sfavillante di titoli come – da pronunciare tutto in un fiato – I magnifici sette, Quattro matrimoni e un funerale, Rocky, Il silenzio degli innocenti, Toro scatenato, La pantera rosa, La parola ai giurati, Lo Hobbit, Basic Instinct, Stregata dalla luna, Poltergeist, La rivincita delle bionde, Robocop, tutti i Bond e via salmodiando – ah, c’è anche quel Thelma & Louise che ha appena compiuto trent’anni, come ricordano & inneggiano Alice Cucchetti e Ilaria Feole su Singolare, femminile.
In provincia di Hollywood
Ma come si fa a mettere assieme le big tech con gli studios, le valli di San Francisco con le colline di Los Angeles? Se finora le altre media company si sono “limitate” ad abbattere i muri adiacenti tra i vari comparti della stessa azienda per riportare ogni operazione sotto il comando di pochi centri decisionali – come ha fatto Jason Kilar con WarnerMedia o Bob Chapek con Disney –, Amazon e MGM rappresentano mondi mai entrati prima in contatto, culture aziendali quasi agli antipodi che si ritrovano sotto lo stesso tetto a produrre lo stesso contenuto. Si tratta di una novità quasi assoluta per le lettere del GAFA (le grandi quattro Google, Apple, Facebook e appunto Amazon), oligopolio che al contrario di quanto si possa di solito pensare è restio a comprare società così lontane dal suo mercato di riferimento, così grandi e così “storicizzate”, preferendo assimilare senza sosta giovani start-up che costano ora poco e rendono poi molto in termini di brevetti e aqui-hiring (neologismo che indica l’acquisizione di talento come elemento centrale dell’affare). Però come in ogni mossa a lungo termine giocata da Bezos, nella sua rincorsa al mondo dell’intrattenimento Amazon ha via via assunto dirigenti con pedigree e contatti giusti per plasmare e gestire Prime Video (la piattaforma video on-demand e di sottoscrizione) e gli Amazon Studios (che questa piattaforma rifornisce di titoli), da Mike Hopkins (SVP – Senior Vice President di entrambi, prima in Sony Pictures Television e Fox Networks) a Jennifer Salke (presidente Amazon Studios, ex-NBC), che hanno tirato su i giovani interni Julie Rapaport e Matt Newman (responsabili della divisione film degli Studios). E se oramai il cumulo di successi tra film e serie, critica e pubblico, Oscar, Emmy e Golden Globe, inizia a diventare significativo, il versante MGM schiera due prime punte come Michael De Luca (chairman MGM Motion Picture Group) e Mark Burnett (chairman MGM Worldwide TV Group): il primo è uno che è stato presidente delle produzioni New Line e Dreamworks, ha prodotto The Social Network e L’arte di vincere - Moneyball, ah, e ha scritto Il seme della follia di Carpenter...; il secondo è semplicemente uno dei produttori televisivi più importanti al mondo, tra Survivor, The Apprentice, La Bibbia e Shark Tank, che tra l’altro assieme alla socia-compagna Roma Downey detiene la terza maggiore quota di azioni MGM, grazie ad un accordo firmato nel 2014 quando lo studios acquisì la loro One Three Media (si calcola che i due, tra la vendita della compagnia e ora l’affare Amazon, abbiano racimolato qualcosa come 1 miliardo di dollari...). Il riposizionamento o il licenziamento di questi colletti bianchi mostrerà cosa Bezos vorrà fare con la MGM, se lasciarla agire in modo indipendente o posizionarla organicamente sotto Prime Video, se continuare a credere nelle uscite in sala o spingere tutto sull’online. Se Hollywood è davvero la provincia della Silicon Valley.
Sotto un cielo senza stelle
Mentre nella provincia nessuno si aspettava l’accordo WarnerMedia-Discovery, il cartello vendita al collo del leone MGM era in bella vista da almeno un decennio, quando una cordata guidata dal fondo di investimenti Anchorage Capital nel 2010 ha tirato fuori dalla bancarotta lo studios, assorbendo quattro miliardi di debiti e convertendoli in azioni, una mossa simile a quella di Burnett che oggi frutta solo ad Anchorage ben due miliardi su 500 milioni di investimento. D’altronde è così che è sempre andata con la MGM, dalla sua fondazione e fino agli anni ’50 uno delle compagnie più importanti di Hollywood, anzi “la” compagnia con cui si identifica la Golden Age del cinema classico americano, capace di produrre titoli come Via col vento e Cantando sotto la pioggia, Il mago di Oz e Ben-Hur, il cui motto era “Più stelle che in cielo” visto il numero celebrità sotto contratto; ma che a partire dagli anni ’60 ha imboccato un percorso fatto di cessioni, riacquisizioni, smembramenti e accorpamenti, da imputare in massima parte alla calata del barbaro Kirk Kerkorian, uno dei primi investitori esterni al mondo del cinema ad acquistare uno studios. La parabola di Kerkorian è una delle più grandi storie di Hollywood, lui che Hollywood si è impegnato a disgregarla nelle sue crociate capitalistiche tra compagnie aeree, scalate alla Chrysler e la fondazione di Las Vegas, comprando due volte la MGM e rivendendola altre tre, in un saliscendi di successi e fallimenti lungo quasi quaranta anni. Nel suo continuo sfruttare e stiracchiare il marchio della compagnia dal 1969 al 2004 per finanziare le sue avventure aziendali, il pilota-pirata Kerkorian ha anticipato di decenni la pietra angolare delle attuali media company, cioè l’ammucchiare contenuti per rimpinzare i propri streaming service: Kerkorian, infatti, da una parte riduceva al minimo la produzione di nuove pellicole, dall’altra mercanteggiava con i cataloghi di vecchi e nuovi, piccoli e grandi studios, in modo da garantire alla MGM un flusso continuo di entrate tramite le licenze di sfruttamento della sua library in continua espansione. Con il passare degli anni i trofei United Artists, Orion Pictures, Motion Picture Corporation of America e parte del Cannon Group hanno riempito la bacheca della compagnia, tant’è che nel 1998 con l’acquisizione per 350 milioni della PolyGram, si calcolava che MGM possedesse circa 5.200 titoli, più della metà dei film prodotti ad Hollywood dal 1948 fino a quel momento (con fulminea risposta della Warner, che dichiarava di averne 5.700, signora mia). Lo stesso anno il Los Angeles Times scriveva di 150 milioni di guadagni annuali in sole licenze, soprattutto grazie al boom dell’home video e della televisione via cavo, quest’ultima capace di far levitare i costi di una pellicola grazie agli innumerevoli passaggi nel corso degli anni (Il duro del Road House con Patrick Swayze è divenuto in questo modo un cult, collezionando 65 programmazioni via cavo tra il 1994 e il 2002, ad una tariffa annuale di circa 600.000 dollari). La modernità di queste pratiche rapaci si evidenzia anche nell’essere una delle poche mosse rimaste agli studios medio-piccoli o indipendenti, divenuti procacciatori di contenuti per le major e gli streaming service, con la MGM che continua ad essere campionessa di questo sport – le entrate solo nell’ultimo anno sono state di 440 milioni per le licenze cinematografiche e 437 milioni per quelle televisive. Non ci saranno più le stelle, ma le stalle sono ben arredate.
Tutti a casa (forse)
Kerkorian e il suo leone sono stati sia prede che predatori, aggiungendo ma anche perdendo titoli, come quando nel 1986 Ted Turner, altro pioniere della compravendita di contenuti, acquista MGM (tranne United Artists) per 1.5 miliardi con l’interno di farne il rifornitore ufficiale delle sue reti via cavo. A causa dei forti debiti contratti e dell’incapacità di trovare altra liquidità, l’affare non viene completamente chiuso e dopo appena cinque mesi Turner rivende lo studios al suo precedente proprietario per circa 450 milioni (Kerkorian, sei un genio), tenendo però nel suo portfolio una parte consistente del catalogo – tutti i titoli MGM pre-1986, alla fine arrivati in mano alla Warner quando nel 1996 questa compra la Turner Broadcasting System (ecco perché lo studios di Via col vento e Il mago di Oz non ha i diritti di alcuni dei suoi stessi film, nonostante gli strilli di vari giornali e siti...). Nel bouquet delle proprietà MGM rientra naturalmente James Bond, macchina filmica da 24 titoli e 7 miliardi al box office, che però ha un “contratto” del tutto particolare: il potere di veto su qualunque aspetto del franchise ce l’ha la Eon Pictures, la casa di produzione fondata da Albert Broccoli e Harry Saltman nel 1961 proprio per gestire gli affari di 007, grazie ad una serie di accordi con United Artists prima e MGM dopo che reggono da sessanta anni a questa parte. Ed è proprio attorno alle rendite garantite dallo sterminato catalogo e ai continui nuovi Bond che lo studios ha potuto non solo tirare avanti ma addirittura tornare a ruggire (vabbè, miagolare) negli ultimi anni, con Burnett (e prima di lui l’altro executive Steve Stark) che ha lanciato show come Vikings, The Handmaid’s Tale e Fargo, e De Luca arrivato nel 2020 che ha già messo in fila per il prossimo futuro l’ultimo Paul Thomas Anderson Soggy Bottom, House of Gucci di Ridley Scott, Cyrano di Joe Wright, Project Hail Mary con Ryan Gosling e i diritti di distribuzione del nuovo George Miller Three Thousand Years of Longing. Amazon sa benissimo tutto questo, ha fatto i conti e ha segnato cosa c’è e cosa manca in un catalogo storico che nel corso degli anni si è cercato di tenere intatto anche per rendere appetibile l’acquisizione della MGM, non frammentando o impoverendo le IP con vendite o sequel/remake/reboot. Perché c’è differenza tra il licenziare titoli a parti terze e sfruttarne il potenziale attraverso nuovi adattamenti o commercializzazioni, ed è su questo doppio terreno che si muoveranno i dirigenti Amazon-MGM, surfando tra la visione algoritmica di Prime Video e quella manifatturiera dietro Bond, mescolando l’offerta video on-demand con pubblicità di IMDb TV e il canale via cavo premium Epix, il know how tecnologico di Amazon Web Service e quello analogico di chi fa cinema e tv. Forse annichilendo il tutto nell’Everything Store che è l’azienda di Bezos, lasciandoci da soli a navigare nel salotto di casa mentre là fuori si somma un altro strato all’accumulo illimitato di merce di Amazon.
Quanto tutto puoi aggiungere all’Impero del Tutto?
Alla prossima (quarta) settimana,
so long
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