La grande scommessa - #006: Almanacco (vol. 3)
La grande scommessa
- di Luigi Coluccio -
#006 - Almanacco (vol. 3)
Ciao,
questa è La grande scommessa, la newsletter di Film Tv sull’industria del cinema e dell’intrattenimento in arrivo nella tua casella di posta ogni giovedì – il giorno del crollo di Wall Street nel ’29 e il giorno propizio al gioco d’azzardo.
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Per il nostro trittico di Almanacco oggi proponiamo Amazon che diventa orfana di Jeff Bezos ma sarà comunque una creatura più che felice; Amazon che ha appena firmato per trasmettere le partite di una delle poche ragioni di vita degli americani, il football; e Amazon che deve imparare a preparare il vodka martini per il suo nuovo giocattolo James Bond. La grande Amazon, insomma.
Amazon, Amazon e ancora Amazon
Tra un giovedì e l’altro si fa la storia. Il tempo di leggere questa uscita de La grande scommessa, e il tempo di scriverne un’altra, ed ecco che una delle aziende più grandi e profittevoli messe su dall’uomo nella cavalcata verso l’abisso del capitalismo occidentale cambierà per sempre: lunedì 5 luglio, infatti, Jeff Bezos lascerà la carica di CEO di Amazon a favore di Andy Jassy, attuale responsabile di Amazon Web Services, la divisione più importante nonché la voce di guadagno più rilevante nei trimestrali della compagnia. Come vuole la narrazione soft ed empatica delle big tech, il lato umano di ogni decisione aziendale non è mai lasciato indietro – al massimo lo sono gli umani che ci lavorano –, così il CEO diverrà ex-CEO lo stesso giorno di ventisei anni prima quando fondò Amazon nel suo garage suburbano di Seattle, come anche quindici anni dopo e dieci anni dopo aver lanciato e perfezionato i business di AWS e Prime Video. Ecco, nell’ultimo decennio i dirigenti dell’Impero del Tutto hanno avuto di che ricordare, grazie ad una capitalizzazione passata dagli 88 mld nel 2011 alla modesta cifra di 1.7 bilioni, il che equivale ad azioni cresciute del 1.588%, il che significa al momento in cui stiamo scrivendo 16.881 dollari di guadagno con un modesto investimento di 1.000 dollari in azioni Amazon nel 2011 (adesso con quei soldi si può comprare al massimo un terzo di una sola azione della compagnia...). Messa così si capisce perché Bezos, a parte geostazionare nello spazio, non andrà da nessuna parte, acquisendo il titolo di executive chairman – altro ruolo, altro colletto bianco da indossare –, come anche Amazon molto probabilmente non cambierà di una virgola la sua flywheel, la filosofia aziendale che spinge nel muovere da una parte all’altra dei suoi sterminati dipartimenti le innovazioni e le tattiche commerciali sperimentate per poi implementarle in altre strutture, mercati, prodotti, continuando incessantemente ad accumulare e produrre – cosa, poi? E la prossima concentrazione è già servita, con il ritorno tra i ranghi dell’azienda di Jeff Blackburn, uno dei più vecchi e importanti executive, che dopo un anno sabbatico è stato posto a capo della neonata divisione Global Media and Entertainment, sigla sotto la quale verranno trasferiti marchi come Prime Video, Audible, Twitch, Amazon Music, Amazon Games, Amazon Studios, MGM, Wondery ecc. L’intenzione è quella di puntare forte sulla creazione e integrazione di contenuti, con grandi hub produttivi e mediaticamente riconoscibili (la serie tv de Il signore degli anelli con un budget previsto per la prima stagione di 450 milioni di dollari, la serie tv de La ruota del tempo che dovrebbe costare 10/15 milioni di dollari ad episodio), e piattaforme che questi contenuti li sfruttano e allo stesso tempo li mostrano (Twitch con i suoi 35 milioni di visitatori giornalieri), raccogliendo il tutto dentro uno sterminato catalogo di proprietà che è davvero multimediale.
Un catalogo la cui creazione e specificità è in divenire, come si può inferire dalle dichiarazioni annuali rese alla SEC americana, spesso l’unica fonte di informazione sulle manovre dei giganti globali, e che hanno visto Amazon segnalare per il 2019 5.8 miliardi di costi capitalizzati (nel 2020 6.8 miliardi, +17%) e 7.8 miliardi per i comparti video e musica (nel 2020 11 miliardi, +41%). Mentre la prima voce si riferisce ai contenuti acquistati presso terze parti, utili a rimpinguare le proprie library e il cui ammortamento pesa sull’azienda di Bezos per svariati miliardi l’anno, la voce di spesa più importante sta pian piano diventando quella riguardante la produzione originale di film, serie tv, musica, audiolibri, videogiochi e qualunque altro prodotto del mondo dell’intrattenimento, cifra destinata a schizzare in alto vista l’oramai guerra di trincea con gli altri streaming service per spillare un solo abbonamento in più agli spettatori-consumatori di tutto il mondo. E qual è l’ultima aggiunta che un catalogo può fare per smuovere il numero delle sue sottoscrizioni? Lo sport, Watson, lo sport. Dal calcio al basket, dal cricket al curling, dove c’è gente che corre dietro ad una palla c’è gente che la guarda, questa gente, e tutte le principali piattaforme online si stanno muovendo a colpi di accordi pluriennali per avere la possibilità di trasmettere anche in non-esclusiva gare e campionati degli sport più disparati. La fetta è davvero grossa visto che si tratta dell’ultimo grande pubblico rimasto alle reti televisive, terreno di caccia per gli sponsor più importanti, e che sulle piattaforme globali potrebbe raggiungere un bacino di utenza potenzialmente sterminato a cui affiancare un advertising online personalizzato ed efficace. Amazon si è mossa per tempo, diversificando la sua offerta tra baseball (le gare degli Yankees assieme a YES Network) e calcio (la Premier League appena rinnovata fino al 2025), ma la gemma della corona è l’accordo raggiunto ad inizio anno per l’esclusiva delle quindici partite annue del “Thursday Night Football” – le partite del giovedì – della NFL americana, in assoluto il campionato più attrattivo al mondo per spettatori e sponsor. Il nuovo contratto televisivo firmato dalla lega della palla ovale con le storiche emittenti ABC, CBS, NBC e Fox è, semplicemente, qualcosa di mai visto: undici anni di esclusiva (2022-2033), costo per network che va da un minimo di 1.7 miliardi di dollari l’anno ad un massimo 2.5 miliardi, per un valore totale di 89.5 miliardi (+108% rispetto all’accordo precedente). D’altronde il pubblico e il mercato vogliono questo, con il football che si aggiudica 71 tra i 100 programmi più visti nel 2020, 32 tra i primi 50, portando circa 4 miliardi di pubblicità per le reti televisive – per finirla di dare i numeri: altri dieci show tra i primi cinquanta sono state le convention e i dibattiti per le presidenziali dell’anno scorso, e sulla beneamata Fox il 52% del tempo speso a guardare il canale è per un match NFL... L’azienda di Bezos voleva fortemente far parte di tutto questo, e nell’asta furibonda per i diritti si è aggiudicata, prima volta nella storia per uno streaming service, addirittura l’intera giornata del giovedì, ad un costo annuale di 1.3 miliardi che porta il totale decennale dell’accordo tra emittenti e lega ad una valore di 105 miliardi – Amazon, non contenta, ha poi anticipato di un anno (2022) la partenza del contratto, facendo risparmiare alla Fox, ex-detentrice del Thursday Night, qualcosa come 660 milioni di dollari. Lo shift, per lo sport americano come anche per il panorama televisivo, è epocale, e mentre la NFL si appresta a supervisionare questa mini-transizione dal cavo al digitale e testare la capacità del retailer online di confezionare un prodotto così importante e difficile come quello di un match di football, Amazon ha subito dichiarato di voler sperimentare e aumentare le possibilità di questo confezionamento, grazie alla scelta del commento e interazioni avanzate come X-Ray, Next Gen Stats e RFID.
Considerando che nel 2019 trenta secondi di pubblicità durante le partite di un giovedì qualsiasi costavano ad occhio 500.000 dollari, e la recente assunzione di Marc Patrick (uno che ha lavorato per venti anni alla Nike) come Global Head of Sports Marketing, capiamo che, sì, Bezos se ne va, ma Amazon rimane. E adesso ha anche lo sport più costoso al mondo.
Agitato, non mescolato
Prima dell’annuncio di Bezos e prima dell’accordo con la NFL i dirigenti Amazon erano sulle spine per una voce che nell’autunno scorso si stava spargendo nella dirimpettaia Hollywood: a causa della pandemia che stava strozzando le sale e soffocando gli studios, la MGM era alla timida ricerca di un acquirente per l’ultimo James Bond, No Time to Die, ad un costo che si favoleggia fosse attorno ai 600 milioni di dollari. I dirigenti della casa di Leo il Leone avevano fatto i loro calcoli, basati su un costo di produzione attorno ai 250 milioni, l’appeal dell’ultima interpretazione da 007 di Daniel Craig, la poca disponibilità in giro di blockbuster e il prestigio di avere nel proprio catalogo uno dei brand più famosi e preziosi della cultura pop globale. Allo stesso tempo il bluff era abbastanza palese, da un lato per via delle difficoltà di rinegoziare con i principali sponsor del film (Heineken, Omega, Land Rover, come anche il distributore internazionale Universal) tutti i diritti e le concessioni garantite da un’uscita in sala ora barattata per uno streaming service, come anche il sicuro nyet che sarebbe arrivato dalla Eon Productions, titolare assoluta dei diritti di Bond che con MGM ha un accordo di produzione/distribuzione e niente più; dall’altro perché mostrava più di quello che intendesse, dichiarando una volta per tutte che tramite la vendita del suo titolo più importante l’ex studios del pirata-pilota Kirk Kerkorian era decisamente sul mercato, e come possibile compratore si adocchiavano – viste le cifre e i titoli messi in mezzo – soltanto i giganti big tech à la Google, Apple, Facebook e, appunto, Amazon. Ora che anche MGM fa parte della nuova unità Global Media and Entertainment, il cerchio si è chiuso e l’azienda di Bezos ha finalmente tra le mani un catalogo di migliaia di titoli e, tra questi, il franchise più british e lungo della storia del cinema hollywoodiano, con 24 titoli canonici e quasi 7 miliardi di dollari di incassi (senza aggiustamenti dovuti all’inflazione) racimolati dall’uscita del primo Licenza di uccidere – che lo pone al settimo posto nella classifica delle saghe più redditizie, dietro titoli contemporanei come Harry Potter, Avengers e Spider-Man.
Lo scarto, come per i diritti NFL, è rivoluzionario, con uno streaming service che per la prima volta possiede un titolo storico e un vero e proprio franchise filmico, e se la polarizzazione non può essere solo tra la visione “algoritmica” di Amazon e quella “manifatturiera” di Bond, sono molte le questioni che girano attorno a queste due formule: come verrà monetizzato un brand del genere? I film di 007 usciranno ancora in sala? Come verrà finanziato e commercializzato un blockbuster di questa levatura se andrà solamente online? Per capire cosa potrebbe succedere tocca capire chi c’è dietro e come viene fatto un film di James Bond, perché particolari sono la sua storia e la sua “formula”. Ad inizio 2020 Variety ha intervistato la “famiglia” dell’agente segreto, Barbara Broccoli e Michael G. Wilson, rispettivamente figlia e figliastro del defunto Albert Broccoli, padre-padrone della Eon Productions e di tutto quello che si vede – o si potrebbe vedere – su uno schermo con protagonista 007. In questo “No Time to Die: A Rare In-Depth Interview With the Keepers of James Bond” (i Broccoli’s non concedono facilmente interviste né apparizioni) vengono snocciolate tutte le resistenze e le rimostranze che i due hanno opposto da vent’anni a questa parte nei confronti di produttori e dirigenti che tentavano di strattonare il personaggio creato dall’altra spia Ian Fleming, preservando attentamente l’immensa eredità personale e collettiva che hanno in mano – e nel portafogli. Con molta consapevolezza, poi, vengono affrontate le criticità di una figura letteraria-cinematografica volenti o nolenti ancorata alle sue origini che affondando nella metà del secolo scorso, e quindi il cercare di piegare ma non spezzare uno 007 sempre più vecchio che affronta cose sempre più giovani, con Barbara & Michael che passano in rassegna l’11 settembre, il tema della violenza, il #MeToo, l’apertura a nuove etnicità – “Può essere di qualunque colore, ma è un uomo” sentenzia lapidaria Barbara. Tutte queste cose sono particolarmente chiare a chi poi dovrà avere i polsi fermi per scriverne le avventure, come John Logan, co-firmatario degli script di Skyfall e Spectre, e che all’indomani dell’accordo Amazon-MGM si è affrettato a scrivere per il New York Times un pezzo di opinione dall’opinione molto chiara – “I Wrote James Bond Movies. The Amazon-MGM Deal Gives Me Chills”.
Certo, si tratta dei soliti timori degli sceneggiatori; certo, ok, il mondo del cinema non è che sia lastricato di buone intenzioni; certo, va bene va bene, Logan è uno che ha avuto a proteggere le sue sceneggiature gente come Ridley Scott e Martin Scorsese. Però, e però... più si diventa grandi e più si ha da perdere, e nonostante Bond infili produzioni da centinaia di milioni di dollari è pur sempre un caro, vecchio film che esce nelle care, vecchie sale. Ora il pubblico degli streaming service è globale, ora gli spettatori sono consumatori che comprano tutt’altre cose, ora Bond è solo un prodotto assieme a tanti altri sugli scaffali fisici degli Amazon Fulfillment Center e quelli virtuali degli Amazon Web Services. Così il timore di Logan e tanti come lui è quello che le criticità di cui sopra più che riconosciute e drammatizzate vengano anestetizzate, risolte a tavolino, accontentando tutto e tutti senza risolvere nulla, in nome di un algoritmo che sistema gli scaffali, fa gli acquisti in borsa e scrive i film. Gli ultimi fuochi.
Alla prossima (settima) settimana,
so long
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