La grande scommessa - #008: Cinema parallelo
La grande scommessa
- di Luigi Coluccio -
#008 - Cinema parallelo
Ciao,
questa è La grande scommessa, la newsletter di Film Tv sull’industria del cinema e dell’intrattenimento in arrivo nella tua casella di posta ogni giovedì – il giorno del crollo di Wall Street nel ’29 e il giorno propizio al gioco d’azzardo.
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Il cinema non è i suoi film, i film non sono le sale, le sale non sono gli schermi: un sillogismo che sembra uno scioglilingua, ma che ci porta alla scoperta di più formati, più supporti, più modi di vedere un’opera cinematografica. Perché il cinema che riusciamo a rintracciare ogni giorno non è l’unico cinema realizzato, anzi ne è forse soltanto la superficie illuminata...
Questo giovedì inizia un dittico che ci porterà altre firme, altre idee, altri lidi. Si comincia con un contributo di Luca Peretti, storico del cinema e delle culture italiane, che attraverso una panoramica a schiaffo tra i decenni e gli archivi ci allarga lo sguardo su un cinema che è sempre stato accanto a noi, fatto da noi e per noi, ma che spesso abbiamo dimenticato di vedere. Tra propaganda, storia politica ed economica, intimità famigliare, c’è molto altro là fuori.
Un film dura intorno ai novanta minuti, c’è un o una regista, delle attrici e degli attori, una trama, qualcuno che produce, qualcuno che distribuisce, dei cinema (oggi anche dei canali tv e delle piattaforme) che lo fanno vedere. Semplice, vero? Però non è sempre stato così: per qualche anno, in Italia e no, c’era un cinema parallelo numericamente molto più importante, che aveva un notevole impatto culturale, e che rispondeva a logiche industriali ed economiche completamente diverse.
Un tempo in cui il cinema contava davvero
Negli anni d’oro del cinema italiano venivano prodotti ogni anno alcune centinaia di film. Incluse le coproduzioni, per esempio, nel 1964 sono quasi cinquecento – l’ultimo anno prima della pandemia, il 2019, erano 193, di cui però solo una manciata arrivano davvero al pubblico. Tra gli anni cinquanta e gli anni settanta invece milioni di persone vanno al cinema, spesso ogni giorno. Nel 1954, anno record, i biglietti staccati sono quasi 900 milioni (novecento!), che scenderanno progressivamente a causa dell’arrivo della televisione e di una maggiore offerta culturale – nel 1970, per fare un esempio, sono comunque più di cinquecento milioni, numeri inimmaginabili per noi oggi (nel 2019 non si è arrivati a cento). Certo, la percezione dei contemporanei non sempre riconosce questo stato di forma, e ogni epoca ha le sue crisi: sempre nel 1964, Vittorio Spinazzola (uno dei critici e storici del cinema più importanti di sempre) scriveva “La parola crisi è purtroppo tornata d’attualità per designare le condizioni in cui versa il cinema italiano”. Quella del cinema insomma era un’industria davvero fiorente, una filiera produttiva che dava lavoro a migliaia di persone. Cose note, studiate, analizzate. Meno, ma invero sempre di più, si conosce invece il cinema parallelo che corre a fianco a quello di finzione e theatrical, per usare una parola inglese di difficile traduzione – significa letteralmente ciò che va al cinema (movie theater). Film didattici, educativi, promozionali, sponsorizzati, militanti, lunghi medi e corti (ma soprattutto corti, massimo una mezz’ora), diretti da sconosciuti registi (quasi tutti maschi) ma anche da giovani e promettenti autori che spesso si fanno le ossa con questo tipo di cinema ma ogni tanto ci tornano anche “da grandi” (tra gli altri, Ermanno Olmi, Bernardo Bertolucci, Gillo Pontecorvo). E dai formati diversi: se il 35mm è stato il padrone indiscusso – fino a neanche dieci anni fa – di quel cinema che tutti conosciamo, in quello parallelo troviamo il 16mm, 8mm, super 8, e anche altri meno battuti.
Il cinema parallelo e utile
“Milioni di persone nel mondo sono state educate dal cinema. Si sono ritrovate in aule scolastiche, auditorium, luoghi di culto, musei, biblioteche, logge massoniche, sedi di sindacati, soggiorni; ma anche in luoghi di lavoro, convention, fiere, sale riunioni, seminari – e persino nei cinema. Hanno visto film selezionati da un enorme corpus di lavori, che chiamiamo film educativi, istruttivi, informativi, pratici, utili, pedagogici, non-theatrical o nonfiction [...]. Un numero incredibile di organizzazioni e individui li ha prodotti, inclusi gli studios di Hollywood, compagnie indipendenti formatesi per produrre film non-theatrical, musei, agenzie governative, fondazioni filantropiche, società professionali e associazioni, università, corporazioni, sindacati, organizzazioni religiose, insegnati e persino studenti”. Insomma, tutti facevano film che venivano proiettati ovunque, ci dicono Devin Orgeron, Marsha Orgeron e Dan Streible nell’introduzione del loro volume Learning with the Ligths Off. Educational Film in the United States, un libro sul cinema educativo negli USA. Un cinema parallelo che ha quindi obiettivi e modalità molto eterogenee: film promozionali che aiutano a vendere prodotti, film che dovrebbero aiutare a fare la rivoluzione, altri che insegnano agli impiegati della tal ditta come indossare i guanti da lavoro, oppure film finanziati dallo stato che raccontano come sono bravi gli italiani a lavorare in tutto il mondo (Italiani nel mondo, 1963). C’è poi il cinema amatoriale, cioè tutti quei film come filmini di viaggio e famigliari fatti da non professionisti, possessori di cineprese in genere 8mm e super8. Lì si apre un immenso vaso di pandora che negli ultimi anni archivi preziosi come Home Movies di Bologna hanno finalmente esplorato. Quella di non-theatrical è però una definizione interessante ma che non funziona del tutto, visto che alcuni di questi film venivano effettivamente proiettati al cinema (“persino nei cinema”, come dicono gli studiosi testé citati), rientrando in circuiti di distribuzione “normali”, o beneficiando in Italia del cosiddetto Premio Qualità, un finanziamento governativo che includeva anche la distribuzione in sala. Vale la pena spendere due parole per accennare invece alla categoria di utile: ne scrivono Charles Acland e Haidee Wasson nel volume intitolato proprio Useful Cinema notando come da sempre, non solo nella nostra era di immagine esplose, “le immagini in movimento circolano ampiamente, servendo funzioni di tipo di diverse. La maggior parte degli studi si concentrano sulla relazione del cinema con concetti moderni di arte e intrattenimento di massa, in questo volume vogliamo asserire che il cinema è anche utile”. Ma del resto, già nel 1971, Gaspare Gozzi, curatore di un volume sul cinema industriale, parlava di una “concezione utilitaristica del film”.
Questo cinema parallelo è, almeno per una trentina d’anni, il cinema numericamente più importante in Italia e nella maggior parte dei paesi occidentali. Torniamo ai numeri, concentrandoci sempre sulla produzione nazionale. Nella categoria “documentari e attualità” dell’annuario de Lo spettacolo in Italia della S.I.A.E., figurano tra il 1950 e il 1970 stabilmente almeno mille film. Ma si tratta di dati impossibili da determinare: questi sono solo i film che hanno ricevuto una qualche qualifica ufficiale, quindi probabilmente una piccola (piccolissima?) parte rispetto ai moltissimi che si muovono, appunto, parallelamente. Ma qual è l’impatto di questi “altri” lavori? Basti a mo’ di esempio guardare al dossier Il cinema in Italia pubblicato da I problemi di Ulisse, un’interessante serie di volumi su argomenti diversi (i due precedenti si intitolano I Ceti dirigenti in Italia e Essere nervosi). Il volume, uscito nell’ottobre 1965, a cura di Fernaldo Di Giammatteo, uno dei decani della critica cinematografica, è una sorta di fotografia del momento che vive il cinema italiano alla metà degli anni sessanta, verso la fine dell’onda lunga di quello che è stato definitivo il secondo neorealismo (il boom all’inizio del decennio). Nell’introduzione presenta un’ipotesi di lavoro che sostiene che “il cinema vero è composto da Fellini, Antonioni, Pasolini ecc., e il resto non conta niente”. “Sarebbe giusto” – continua Di Giammatteo – “occuparci anche dell’altro cinema italiano, i prodotti per il divertimento di massa”, ma “conta il cinema degli autori”. Il resto in questo contesto è il quindi il cinema popolare, “gli Ercoli, i Mondi cani, i Matrimoni all’Italiana, gli Oscar Sophia” e via dicendo. Non il cinema altro o parallelo, che invece nel volume è attenzionato in ben tre capitoli (con riferimenti in altri). Un esempio, solo un esempio, ma che aiuta a comprendere come un tipo diverso di cinema esistesse e ricevesse attenzioni.
Produzioni e registi
Alla maggior parte degli appassionati di cinema, anche quelli più ossessionati da nomi date e titoli, Ubaldo Magnaghi e Virgilio Sabel risulteranno sconosciuti. Eppure sono due degli autori più prolifici del cinema italiano, con decine e decine di film di vario tipo firmati da entrambi – Virginio Tosi è più conosciuto come organizzatore culturale e critico cinematografico, ma anche lui è uno degli eroi di questo cinema altro. Certo, non è un caso se le poche pellicole di questo universo alternativo a uscire un po’ dalla nicchia sono quelli firmati da registi più famosi e importanti: come La via del petrolio, il film che Bernardo Bertolucci realizza nel 1967 (quando è molto giovane ma già famoso e affermato, essendo la sua terza regia) per l’Ente Nazionale Idrocarburi (ENI), che racconta il viaggio del petrolio dall’Iran, dove viene estratto, fino alla Germania, dove viene rifinito, passando per il Medio Oriente, il Mediterraneo, e poi risalendo l’Italia. Uno straordinario documentario e documento etnografico, recentemente restaurato e uscito anche in DVD. Oppure come i documentari di Ermanno Olmi per la Edisonvolta: dal 1953 al 1961 Olmi è stato regista interno all’azienda che aveva una sua Sezione Cinema, per la quale filma la costruzione di centrali elettriche e altri lavori in giro per l’Italia – Dialogo di un venditore di almanacchi e di un passeggero e Tre fili fino a Milano non sono solo importantissimi documenti dell’epoca, ma anche film dove emergono chiari poetica e punto di vista, originalissimi. Poetica che del resto si ritrova, nel caso di Olmi, nei suoi primi lavori, non solo Il tempo si è fermato, concepito ancora da dipendente dell’azienda e da questa finanziato, ma anche Il posto (1961) e I fidanzati (1963). Spesso però per questo tipo di cinema non è molto importante chi ci sia dietro a dirigere. Scrive Giulio Busi in un volume e antologia di film della AEM (la municipale milanese dell’energia elettrica) uscito per Rizzoli: “Fatta eccezione per due pellicole realizzate nel 1957 dal poeta milanese Nelo Risi (fratello di Dino, e autore di lungometraggi di fiction di grande valore, nonché di film per la Olivetti), i titoli [dei film della AEM] non presentano firme di registi, e solo in alcuni casi sono disponibili i cartelli che permettono ci collocarli temporalmente e attribuirne la paternità ad alcune case di produzione e operatori”. Insomma, un cinema senza nomi, in cui spesso ciò che conta è la ditta o l’organizzazione che sponsorizza e vuole il film, più che gli uomini (rarissimamente le donne) che il film lo fanno.
Vista l’eterogeneità, non vi è un solo modello produttivo. C’erano case di produzione (una di questa, forse la più famosa, era la Documento Film di Giorgio Patara) largamente specializzate nella realizzazione di documentari brevi di vario tipo che lavoravano su commissione di aziende e altre istituzioni, ma che in alcuni casi addirittura proponevano loro prodotti ai potenziali committenti. Ma c’erano anche aziende, come l’Edisonvolta, che avevano una loro troupe interna, mentre altre (come l’ENI) avevano un ufficio cinema che si interfacciava con registi e compagnie. Se ci spostiamo a partiti e organizzazioni politiche, abbiamo i casi di registi militanti che offrivano il loro lavoro attraverso cooperative o spesso improvvisate case di produzione (ne ha scritto Christian Uva nel suo L’immagine politica. Forme del contropotere tra cinema, video e fotografia nell'Italia degli anni Settanta). Il Partito Comunista invece aveva una sua compagnia interna, la Unitelefilm, che produceva film per il Partito. Anche governo italiano e altre istituzioni governative si appoggiavano a case di produzione esterne. Si trattava di un cinema che aveva le sue riviste di riferimento (come Cinema Specializzato) e i suoi festival (uno anche sponsorizzato da Confindustria) ma che non mancava neanche agli eventi festival mainstream. Per esempio, alla Mostra di Venezia nel 1960, vengono proiettati, tra gli altri, L’Italia non è un paese povero di Joris Ivens (per ENI), Elea classe 9000 di Nelo Risi (Olivetti), Il grande paese dell’acciaio di Ermanno Olmi (Edisonvolta), L’uomo il fuoco e il ferro di Eugenio Carmi e Kurt Blum (Ansaldo): praticamente una lista delle compagnie italiane più attive nella realizzazione di film, ENI e Edisonvolta di cui si è già parlato, e poi Olivetti, che con il lavoro di Risi produce forse il film industriale più bello dell’epoca (lo si può vedere online qui).
Ciò che resta
Che cosa rimane oggi di quel cinema? Tutto e niente, viene da dire. Niente perché quella stagione di film visti ovunque e prodotti da chiunque non esiste più. La si può studiare, grazie a libri e volumi, ma anche ad archivi (come quello del cinema d’impresa o l’Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico) che mettono a disposizione i loro film online. Ma anche tutto, perché in fondo quella stagione è transitata per il video negli anni ottanta e novanta, e i punti di contatto tra quel modo di intendere le immagini e il nostro contemporaneo di immagini diffuse ovunque non sono pochi. Cosa facciamo, in fondo, ogni volta che filmiamo i nostri amici se non produrre filmini amatoriali? E cosa sono le pubblicità che vediamo sugli schermi della stazione Termini se non la versione aggiornata e moderna dei film promozionali delle aziende? Certo, sono cambiate tante cose, formati, modalità, e soprattutto c’è il digitale che rende apparentemente tutto più facile. Ma i germi c’erano già tutti. Non è quindi solo la curiosità degli e delle studiose di cinema, o l’andare alla ricerca dei contatti tra questo cinema parallelo e quello di finzione mainstream – esercizio utile e necessario per i film di Bertolucci o Olmi, ma molto più aleatorio in molti altri casi. È piuttosto che analizzare queste opere aiuta a ripensare completamente la storia del cinema, del nostro immaginario, del modo a cui guardiamo le immagini. E a pensare che forse il concetto di cinema è molto più espanso e ampio di quello che siamo abituati a considerare.
Luca Peretti è uno storico del cinema e delle culture italiane. Ha studiato in Italia, nel Regno Unito e negli Stati Uniti d’America, ora ha un postdoc all’Università di Warwick. Ha curato un libro su cinema e terrorismo e uno su Pier Pasolini Pasolini, e scritto per varie riviste accademiche (in italiano e inglese). Collabora con siti e giornali, ed è parte della redazione di DINAMOpress e il lavoro culturale.
Alla prossima (nona) settimana,
so long
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