La grande scommessa - #011: La Settima Arte
La grande scommessa
- di Luigi Coluccio -
#011 - La Settima Arte
Ciao,
questa è La grande scommessa, la newsletter di Film Tv sull’industria del cinema e dell’intrattenimento in arrivo nella tua casella di posta ogni irregolare giovedì – il giorno del crollo di Wall Street nel ’29 e il giorno propizio al gioco d’azzardo.
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Che cos’è il cinema? Un lucernario dell’infinito, una patria permanente, un buio solcato da una luce. O anche un’industria, un’industria che produce arte. È questo che afferma La Settima Arte, il festival della città di Rimini e di tutta la Romagna che si è svolto dal 1° al 3 ottobre scorso, e di cui vi proponiamo il nostro reportage. La grande scommessa in riviera, insomma.
[La newsletter preferita dagli scommettitori delle quotazioni in borsa di Netflix è tornata, ed è diversa in tutto. Nuova piattaforma – Substack –, nuova regolarità – nessuna regolarità, si esce sempre di giovedì ma in base alle fluttuazioni dei mercati –, nuovo sguardo – oltre alle analisi industriali ci saranno reportage e speciali assortiti. Si comincia con un lungo servizio tra una flânerie cittadina e un dialogo sui massimi sistemi online, perché il mare è bello anche in autunno]
Com’è Rimini dopo l’estate? L’ultima festa della stagione è andata, non si cantano più le hit agostane e le cene luculliane finiscono presto. Ora la spiaggia è finalmente libera. Così fa uno strano effetto deformante arrivare qui per un festival di cinema e non trovare niente di quello che abbiamo sempre visto al cinema – nemmeno gli autunnali Amarcord o I vitelloni, perché no, come ci dicono non è rimasta neanche la nebbia… Il divertimentificio si toglie l’abito da sera e indossa la vestaglia comoda, mostrandosi intimo e amichevole con chi vuole restare in riviera ancora un po’. È come stare alle Lenee ateniesi – il mare è freddo e sconsigliato per la navigazione, la piazza è fatta solo di cittadini, gli eventi che vanno in scena sono per noi e solo per noi. E così è stato per La Settima Arte.
Tutto il cinema che c’è
“Il festival è nato sostanzialmente dai promotori. Una sala, Confindustria e l’Università, tre promotori molto diversi tra loro che però avevano voglia di fare un evento cinematografico che avesse dei punti in comune, e tutti e tre ci siamo trovati con quest’idea, nel senso che la cosa che i festival tendono a fare, e va benissimo, è considerare il film come arte, però noi vogliamo ricordare che sono anche industrie, e industrie culturali. Da questo punto di vista è nata subito l’idea di creare un evento che chiamiamo festival, un piccolo festival, che potesse interpretare questo pensiero. Da una parte c’è l’idea più imprenditoriale, e dall’altra il cercare di capire come questo elemento imprenditoriale possa coprire dal più piccolo dei film indipendenti all’industria cinematografica nelle sue caratteristiche più tradizionali. Qui tocca un po’ al direttore artistico cercare di dare ampiezza a tutti questi contenuti, ma l’idea di base è nata proprio dall’eterogeneità dei promotori che si ritrovano in un unico grande concetto – che il cinema è un’industria culturale e può essere celebrato come tale e non solo come forma di linguaggio artistico”.
Il manifesto programmatico del festival che si è svolto dal 1° al 3 ottobre scorso l’ha enunciato per noi il direttore Roy Menarini, alla guida della kermesse riminese fin dall’inizio, cioè quel 2019 che oggi appare così lontano da essere quasi archeologia del cinema. Dall’ingresso di Netflix nella Motion Picture Association avvenuta proprio in quell’anno alla pandemia da SARS-CoV-2, dall’impennata globale del consumo online alla rivoluzione copernicana della contrazione delle finestre distributive, l’intera filiera cinematografica è in continua rimodulazione, e un festival come La Settima Arte, che si propone di indagare il presente e il futuro del suo assetto industriale, è dalla prima edizione che cerca non tanto di fermare ma semplicemente di raccontare tutto questo. Il modo in cui ha scelto di farlo è quello di un’estrema ibridazione dei contenuti, delle forme, degli indirizzi. Tra incontri, proiezioni e retrospettive, il nucleo dell’evento è un’interessantissima miscela di sguardo pop e autoriale, sostenuto e amplificato da un’attenzione particolare verso tutte le declinazioni possibili del termine “industria culturale”. Così quest’anno si sono avuti, tra gli altri, gli omaggi a Dario Argento e Neri Marcorè, le prime visioni di First Cow, Ennio e Titane, le tavole rotonde sulle nuove forme di celebrity system e il ruolo delle piattaforme, le celebrazioni “filmiche” per il settecentenario della morte di Dante e via elencando. Il Premio Confindustria “Cinema e Industria”, che celebra i professionisti del settore, ha poi visto i diversi riconoscimenti andare a nomi pesanti dell’ossatura industriale-mediatica del settore, cioè Beppe Caschetto, Andrea Occhipinti, Blasco Giurato e Ursula Patzek – con la statuetta ad honorem per Dario Argento.
Ma al di là dell’alternanza degli appuntamenti quotidiani è la visione d’insieme della forma che si è data il festival che ci dice molto di come un evento legato all’industria si stia confrontando con il dualismo imperante nell’attuale panorama cinematografico, cioè la polarizzazione sala/digitale. Come dice lo stesso Menarini, “stiamo cercando di monitorare in diretta, di prendere ogni anno la temperatura della situazione dell’industria cinematografica, in particolare quella italiana. La scelta da parte nostra di fare dei festival in presenza, anche nell’ottobre del 2020, poco prima che tutto richiudesse, e ancora di più a ottobre 2021, mandando in streaming solo gli incontri, è stata fortemente voluta da me. Non ho nulla in contrario ai festival in streaming, anzi devo dire che durante la pandemia sono stati ossigeno per il sottoscritto e per tutti quanti, però contemporaneamente il rischio con cui ho già parlato con Gianluca Guzzo [fondatore e CEO di Mymovies, N.d.R.] e con altri operatori è che i festival che vanno sostanzialmente su un unico canale perdano identità – e di questo me ne sono accorto confrontandomi con studenti e spettatori. A parte quelli che i teorici chiamando gli iper-spettatori, moltissime altre persone trovando tutto online, e nel caso italiano tutto su un unico grande portale, cominciano a non distinguere più un festival dall’altro, per non parlare delle località in cui si sarebbero dovuti svolgere o si stanno svolgendo in forma ibrida”.
La grande Rimini
Sommando tutto questo è evidente come La Settima Arte si possa avviare a essere un unicum abbastanza particolare nell’orizzonte festivaliero italiano, dove l’attenzione per l’industria è relegata a giornate professionali e appuntamenti di mercato riservati per lo più agli addetti ai lavori – venendo meno così la mostrazione dei processi industriali che stanno dietro la realizzazione dei prodotti culturali. Una manifestazione del genere, quindi, non può che attirare l’attenzione de La grande scommessa, soprattutto se in diversi incontri erano presenti nomi quali la direttrice marketing di Mubi Irene Musumeci Klein, il fondatore e CEO di I Wonder Andrea Romeo, e il fondatore e CEO di Mymovies Gianluca Guzzo – un tridente offensivo di tutto rispetto che porta in dote la visione strategica glocal della piattaforma autoriale per eccellenza (Mubi), una delle realtà indipendenti più interessanti e dinamiche del panorama nazionale (I Wonder) e l’editore cinematografico online più importante per numeri e visibilità (Mymovies). Tra gli appuntamenti del festival e le interviste che ci hanno concesso, abbiamo tracciato una sorta di compendio del sistema-cinema contemporaneo, che sta cercando disperatamente di portare a termine una rivoluzione digitale che riesca finalmente ad abbracciare consumo online ed esperienza in sala, per un ecosistema filmico che possa garantire incassi e visibilità al cinema autoriale preservando e rilanciando il modus operandi degli esercenti. Tutto questo può essere realizzato soltanto grazie a una profonda e fiammeggiante educazione cinematografica, che permetta alla nuova figura dello spettatore-utente di guardare film sempre e comunque, andando oltre le barriere della discriminazione di prezzo e della segmentazione del prodotto, senza però capitolare al consumer welfare di amazoniana memoria. Quello che si è scritto in questi mesi su La grande scommessa, insomma, solo detto da chi lo sto facendo.
Il gusto di Mubi
Così non si può non iniziare da chi già da adesso ha un profilo simile a quello di una sala d’essai, anzi ricerca proprio questo – e cioè Mubi. Come ci ha detto Musumeci Klein, “abbiamo un piano di lavoro sull’Europa, i focus di Mubi sono Francia, Germania e Italia al momento, con Mubi che però è disponibile in tantissimi altri paesi. Ci sono dei team che si occupano della programmazione specifica di questi mercati, con progetti e curatori specifici proprio per inserirsi in un discorso di cultura nazionale, di industria del cinema del territorio e per parlare con uno spettatore locale. C’è questo livello di localizzazione che al momento viene fatta in Europa su questi tre territori, e per quanto riguarda il resto trattiamo quello che c’è di disponibile curando un catalogo con gli stessi criteri ma con meno disponibilità. Non abbiamo un programma dedicato per la Polonia o per la Repubblica Ceca, ma c’è una programmazione worldwide che è quella lì, viene fatta ogni mese dalle stesse persone ma con un’attenzione leggermente diversa per quella che è la posizione dei titoli soprattutto locali.”
Il più classico dei think global act local viene qui declinato in un’espansione pan-europea che però tiene conto delle enormi differenze nazionali del Vecchio Continente, e il grimaldello non può che essere la riscrittura dell’elemento umano sopra l’algoritmo della piattaforma. “La scelta è molto importante, e quello che Mubi fa è una scelta guidata. Non si tratta di buttare uno spettatore in un panorama di centinaia e centinaia di film che non conosce pensando che avrà la curiosità di andare a scoprire le cose. Nella programmazione di Mubi c’è un po’ la stessa idea della programmazione che c’è nei cinema d’essai, che è quella di dire questo è un film in cui credo, lo mettiamo lì e guidiamo gli spettatori in tutti i modi possibili tra la presentazione sulla piattaforma, la comunicazione diretta su email, le campagne marketing. Tutto questo è lì per spiegare una nostra scelta e fare in modo che sia un momento di connessione con lo spettatore. […] Si fa con un misto di presentare cose che sono magari un po’ più familiari, più conosciute, più accessibili – perché ci vuole un punto di ingresso – e poi pian piano si costruiscono dei discorsi di programmazione creativa. Il risultato è che un film come Shiva Baby, una commedia ambientata sì a Brooklyn ma in questo milieu molto specifico di una veglia ebraica, diretto da un regista donna esordiente, e con una campagna marketing anche piuttosto ristretta – perché quella che abbiamo fatto in Italia era davvero piccola rispetto ad altre –, improvvisamente trova un pubblico, e quel pubblico lo trova perché c’è la voce di Mubi che dice allo spettatore di fidarsi come si è fidato fino ad ora, e perché ci sono le persone che si fidano già di Mubi che ne parlano. Il passaparola è fondamentale”.
Ma lo scarto successivo e necessario è il trasferire il know how tecnologico e dei dati acquisiti nella sfera digitale al mondo fisico delle sale, realizzando la necessaria commistione tra salotto di casa e cinema locali che potrebbe rendere una persona spettatore e utente assieme, singolo e comunità. “Quello che contraddistingue un po’ il nostro lavoro è che in vari territori abbiamo anche tutto l’aspetto di distribuzione theatrical. In Inghilterra, per esempio, sono tanti anni che abbiamo una casa di distribuzione e ci stiamo impegnando per connettere tutto quello che è il nostro lavoro su piattaforma con quello a livello della sala. Abbiamo un’app che si chiama Mubi Go che è abbastanza unica nel panorama, che permette a chi ha una sottoscrizione Mubi particolare di avere un biglietto del cinema gratuito ogni settimana in un cinema di loro scelta. L’app è utilizzabile a livello nazionale e a seconda di dove la persona si trova vede i cinema disponibili nel raggio di alcuni chilometri, il film è selezionato settimanalmente dai nostri curatori ma non è distribuito da Mubi bensì basato sulla programmazione del cinema – abbiamo accordi con i distributori e con le sale per creare questo momento di connessione. È importante che non sia un film programmato da Mubi perché è importante rispettare quelli che sono i tempi di programmazione delle sale. Poi quando abbiamo un film Mubi in sala è sempre bello poterlo offrire ai nostri spettatori in questo modo e ampliare la disponibilità di fruizione, così chi sceglie di vederlo a casa lo vedrà a casa e chi sceglie di vederlo in sala avrà la possibilità di farlo”.
La ricaduta primaria di un’iniziativa del genere è, semplicemente, il pubblico che va al cinema, perché uno spettatore che ha fatto un determinato percorso di educazione filmica continuerà sì a vedere i film, ma lo farà anche in posti e modalità totalmente nuovi per lui. “È un modello che sta funzionando molto bene e che ha avuto due risultati eccezionali in Inghilterra. Il primo è che Mubi Go porta al cinema delle persone molto più giovani rispetto al pubblico normale delle sale, e delle persone che normalmente in quel cinema non ci vanno. L’altro dato veramente incoraggiante è che noi vediamo esserci una correlazione diretta tra gli utenti che guardano tantissimi film sulla piattaforma e quelli che vanno più al cinema, ed è un discorso importante da fare in un momento in cui si parla di piattaforma contro sala. Qui vediamo che la collaborazione porta frutti molto buoni e questi due risultati per noi sono fondamentali. Il pubblico di Mubi è molto giovane, è un pubblico che non nasce come pubblico che va in sala e quando va in sala trova un pubblico molto diverso da se stesso, quindi è importante avere una connessione di questo tipo anche per educare non solo al film ma ai diversi tipi di fruizione”.
Ma come si trasporta questo modello in un nuovo paese? “Quando parliamo di entrare in un nuovo mercato la parte tecnologica è già fatta. Mubi è disponibile in 190 paesi, quindi questa c’è già, quello che cambia è il tipo di curatela e la localizzazione – fare tutto un lavoro di traduzione veramente molto dettagliato, cominciare a prendere tutto il contenuto che c’è e creare tutti i punti di accesso con tutte le modalità linguistiche e culturali che servono. Poi soprattutto il marketing, il nostro team italiano in questo momento è un team prettamente marketing e comunicazione. È questione di trovare le persone giuste, noi abbiamo un recruitment molto serio, molto prolungato, che ha frutti eccezionali e posso sinceramente dire che il team Mubi è il team migliore con il quale abbia lavorato nella mia vita, persone estremamente talentuose che conoscono in modo profondo il panorama in cui si trovano ma che sanno anche lavorare con le modalità globali dell’azienda. […] L’analisi di mercato c’è, è una cosa che viene fatta costantemente e non solo all’inizio. Uno fa tutte le cose classiche, valuta le opportunità, le competitività, però la cosa fondamentale è continuare ad agire localmente, osservare cosa succede, partecipare, essere presenti, è fondamentale avere i team locali perché sono loro gli occhi e le orecchie di Mubi in un nuovo paese”.
Infine uno dei quesiti più complessi riguardo al prossimo futuro del sistema-cinema, cioè la possibilità che gli streaming service e gli studios, vista soprattutto la scadenza del Paramount Decree a fine 2021 – di cui parleremo… –, possano entrare direttamente nella gestione delle sale cinematografiche. “Su questo non posso commentare… Però a Città del Messico stiamo costruendo un cinema, che sarà un cinema molto particolare, pensato per essere parte di Mubi, e vedremo come va”. Già, vedremo come va.
Diversamente indipendenti
E se fosse il cinema indipendente, autoriale, a fornire la chiave necessaria alla compresenza di piattaforme e sale? A ben vedere le esperienze più interessanti riguardo questa necessaria commistione provengono quasi tutte da qui – poteva non essere così? –, con eventi nazionali tipo #iorestoacasa, MioCinema e 1895, o modalità come il doppio sbigliettamento (compro l’accesso in sala e contemporaneamente sblocco anche la visione online) e il geo-fencing (localizzazioni che permettono a ogni cinema di scegliere il prezzo da imporre in base al proprio pubblico, ai costi di gestione e all’area geografica). In un mercato drogato dalle richieste degli studios e dalla militarizzazione degli schermi da parte di blockbuster/tentpole/franchise – nel 2017 la Disney esigette dagli esercenti il 65% dei profitti per The Last Jedi e un’esclusiva di quattro settimane di tenitura nella sala più grande, e se veniva saltata anche solo una proiezione la percentuale arrivava al 70% –, la creazione di nuovi spazi di visione e di guadagno per il cinema indipendente passa inevitabilmente dal corretto affiancamento del digitale alla sala. Lo sa bene Andrea Romeo, che con la sua I Wonder non solo ha puntato forte sulla distribuzione di un genere – quello biografico e documentario – spesso difficile da far emergere, ma che con la creazione della piattaforma di proprietà IWonderfull ha confermato la dinamicità e la profondità del sguardo editoriale.
Ma come si fa a traslare online una forte identità costruita in tanti anni di lavoro su ogni singola pellicola e con il fondamentale apporto degli esercenti? “Abbiamo avuto l’opportunità di recuperare i nostri titoli già usciti nelle sale e di dargli una curatela diversa, qualche volta intervistando i protagonisti, i registi, facendo quel lavoro che normalmente si faceva nei festival e che invece sulla piattaforma diventa una clip di quaranta minuti – la durata l’ha scelta Werner Herzog, che è stato il primo e con cui ne abbiamo fatte due, il quale suggeriva quei quaranta minuti come la conversazione fruibile e piacevole online. In questi giorni pubblichiamo quella con Julia Ducournau – più sul suo cinema che su Titane –, ed è una modalità per implementare il modo di curare i nostri film e i nostri autori, perché I Wonder spesso lavora in maniera ripetitiva con gli stessi nomi. Al contempo l’occasione che ci ha dato la piattaforma è quella di andare a riprendere film che sentiamo in qualche modo vicini alla linea editoriale di I Wonder e ai nostri gusti, che non avremmo mai potuto portare nelle sale cinematografiche perché magari troppo piccoli o troppo lontani nel tempo e che invece adesso possiamo mostrare su IWonderfull. Per esempio The Cats of Mirikitani di Linda Hattendorf, un film che io adoro ma che probabilmente le sale non avrebbero mai voluto prendere in considerazione. […] Ancora mi è cambiata un’altra linea di ragionamento, posso prendere dei film nuovi, freschi, magari con un target molto più giovane e che non avrebbero successo in sala, per portarli sulla piattaforma. Come Wild Men, un film danese molto interessante, un noir divertente e riuscito che arriva a gennaio, o magari film che in Italia fanno fatica a trovare in sala un pubblico cinefilo perché per esempio il pubblico cinefilo francese è molto più giovane di quello italiano – quindi non avrebbero avuto i numeri per una distribuzione nazionale mentre su IWonderfull possiamo permetterci di programmarli. Poi possiamo cominciare a mandare anche dei film che non possono sostenere un doppiaggio o che non vogliamo doppiare, laddove le televisioni tradizionali e la grande distribuzione ci chiedono necessariamente di doppiare”.
Ma anche un profilo così innovativo si deve scontrare con i limiti di sistema della rete, poiché il reale punto di forza dei principali attori della gig economy e del consumer welfare è il loro essere piattaforma e struttura assieme – Apple non è soltanto l’hardware ma anche il software (Apple Store, iTunes) attraverso il quale si attua il mercato digitale. Così IWonderfull è una delle poche realtà italiane presenti sugli Amazon Prime Channels, perché il mercato audiovisivo lo richiede per società globali come Mubi e per realtà locali come I Wonder. “Ho scritto chiedendo ad Amazon i channels in Italia credo tre anni prima dello scoppio del covid, anzi tre anni prima dell’apertura del canale IWonderfull. Desidero molto questo servizio perché trovo che per una piccola distribuzione diversamente indipendente il brand Prime Channels sia l’occasione per continuare a fare il suo percorso editoriale. E in qualche modo anche un grosso alleato come Amazon ci dà la possibilità di avere uno spazio di manovra che ci rende per certi versi più competitivi di altre piattaforme come possono essere Mubi o altri player sovranazionali, che inevitabilmente hanno accesso a infrastrutture digitali sempre aggiornate e più forti di quelle che noi come I Wonder potremmo generare direttamente. Invece alleandoci con Amazon possiamo dare al nostro utente il massimo della piattaforma e della qualità della navigazione, il massimo della sicurezza in termini di transazione digitale e pagamento dell’abbonamento, e un marketing forte. I numeri ci stanno dando ragione con un pubblico con il quale dialoghiamo attraverso questo gigante dell’entertainment oltre che dell’e-commerce. Credo che si dovrebbero trovare questi spazi di creatività per essere indipendenti, come con la collaborazione con il gruppo Unipol che ha finanziato anche questa volta la nostra ricerca sulla cultura con IWonderfull. Lo stesso con un gigante come Amazon, che però ha piacere di ospitare anche l’alterità di qualcosa di non mainstream ma molto editorialmente definito”.
Il vecchio e il nuovo
E se tutto cambia, come può non farlo anche chi ragiona tra gli spazi di quello che c’è tra il cinema e il film, cioè il critico? O meglio, quanto e come deve cambiare anche una realtà editoriale complessa, stratificata, ventennale come quella di Mymovies, che da sempre è stata concepita e realizzata sulla rete? Gianluca Guzzo prova a rispondere così: “Durante il lavoro che abbiamo fatto in questi ventuno anni abbiamo visto da vicino l’evoluzione che c’è stata sia nell’ambito cinematografico che in quello tecnologico. Nasciamo nella prima bolla internet del 2000 e quindi in qualche modo siamo soggetti a continui cambiamenti, a continue rimesse in discussione, alla ricerca di innovazione sia tecnologica sia di modelli nuovi e interessanti per cercare di non perdere la leadership. Mymovies grazie a una serie di attività e alla crescita di internet si è trovato al posto giusto nel momento giusto, riuscendo ad avere la leadership per quanto riguarda la parte di editoria cinematografica, e il nostro lavoro è sempre stato quello, da una parte il cercare di non perdere questa leadership, dall’altra provare a preservare il valore che avevamo guadagnato nei confronti dei nostri utenti – il cinema dalla parte del pubblico, cioè l’attenzione per il cinema di qualità”.
In un continuo ragionare sulle forme da assumere per mimare e adattarsi alla complessità dell’online, Mymovies aveva così raggiunto da tempo l’assetto ideale per affrontare la necessaria integrazione tra sala e digitale – solo che ancora non lo sapeva. È infatti del 2010 la nascita di Mymovieslive, la piattaforma di virtual cinema che simula l’esperienza in sala inaugurata con la proiezione di La bocca del lupo di Pietro Marcello. La pandemia e il lockdown hanno poi fatto il resto, trasformando il portale di un editore nel palcoscenico obbligato per quasi tutte le distribuzioni e i festival nazionali dove mostrare i loro titoli a un pubblico bloccato a casa e affamato di vita e di visioni. “Tutto questo è figlio dell’innovazione tecnologica. Noi nasciamo digital, facciamo questo ma sempre in continua trasformazione, perché è la filiera cinematografica che si trasforma. E questo background digitale siamo riusciti a riproporlo in varie versioni, dalla distribuzione alla produzione all’offerta in streaming. In questo ultimo modello ci siamo posti come service mettendo a disposizione la nostra esperienza dal punto di vista editoriale, di marketing, tecnologica, per permettere ad alcune sale e ad alcuni festival di andare online – non rinunciare al proprio festival e proporlo al proprio pubblico. Il modello da service, prendendo delle piccole quote per ogni visione, per ogni utente iscritto e per ogni film caricato sulla piattaforma, piuttosto che in revenue sharing, permette a tutti i festival, dal più grande al più piccolo, di poter andare online. Abbiamo avuto circa cento festival, perché con questo modello anche il piccolissimo festival si poteva permettere di avere la piattaforma in streaming e di potere andare online. Solo con alcuni festival abbiamo un rapporto di revenue sharing, ma veramente pochissimi. [...] Gli incassi sono stati piuttosto importanti, alcuni festival hanno guadagnato più online che in presenza, e la cosa interessante, sui pochi dati che abbiamo – siamo al secondo giro –, è che il trend continua in un momento in cui le sale cinematografiche sono aperte e i festival si stanno facendo live”.
Tutto questo porta forse allo scarto maggiore da ricucire tra sbigliettamento in sala e consumo digitale, e cioè come calcolare l’effettivo successo di un film? Perché è da questo semplice dato, reperibile e quantificabile in modo oggettivo nella distribuzione theatrical, che a cascata derivano tutte le successive cifre della filiera-cinema (percentuali degli attori, costi per la pay tv, noleggio in premium video on-demand, merchandising...). A cui si aggiunge, per quanto riguarda la navigazione online, il possesso di una mole indicibile e preziosissima di big data al cui interno è racchiuso il successo degli algoritmi. “I nostri festival si aprono e si chiudono nel giro di dieci giorni – e forse cambieremo questo modello –, così nel momento in cui un festival apre e chiude, magari in contemporanea c’è un’altra manifestazione che si appoggia sempre sul nostro service ma è un festival parallelo dove l’abbonamento ha un costo diverso. Ognuno segue il proprio percorso ma tutti quanti fanno parte dello stesso database, della stessa offerta, e a livello di marketing riusciamo a unirli. Un determinato festival tra un anno si ritrova nel proprio database tutte le esperienze dei festival che ci sono stati dopo – è una ricchezza condivisa da tutte le manifestazioni ma ognuna di loro è individuale. [...] Ogni festival ha i suoi dati e noi come Mymovies abbiamo i dati di tutti. Dal punto di vista di marketing noi mandiamo la newsletter per dire a tutti i nostri utenti che c’è un nuovo festival, e il festival manderà la propria ma solo ai suoi utenti. In qualche modo cerchiamo di fare gruppo a livello di marketing per costruire uno zoccolo duro di utenti, anche perché nei dati che vediamo scopriamo che ci sono utenti che se li fanno tutti, con spese da sessanta, settanta euro al mese per tutti i festival che noi abbiamo in quel periodo, e questo è un risultato straordinario. Dove vogliamo arrivare è avere un unico abbonamento per potere fare tutti i festival, e ci stiamo arrivando perché, ad esempio, Biennale Cinema Channel in questo momento è un abbonamento ricorsivo a 7.90 € che ti dà la possibilità di accedere ai trentotto film in anteprima mondiale durante la mostra ma ad altri quaranta film dal 2006 al 2019. E ora agli abbonati di Biennale Cinema Channel stiamo dando degli altri benefit, per esempio si può entrare anche a vedere i film del Middle East e del Sedicicorto, e questo modello lo stiamo testando con l’obiettivo di arrivare a un solo abbonamento per accedere a tutti i festival”.
E il museo va
Ma perché un festival di cinema e industria proprio a Rimini, e proprio ora? Qui si intrecciano questioni complesse che riguardano le politiche culturali, l’identità di un territorio, il contesto urbano della vita dei cittadini, la mobilità imprenditoriale e – in questo caso – l’educazione cinematografica. Menarini prova a riassumere il tutto così: “Il festival nasce nel momento in cui il Ministero della Cultura aveva già stanziato molti milioni di euro per la costruzione, finalmente, del Fellini Museum, cioè la realizzazione del molto atteso e molto dibattuto museo del più grande regista italiano. Contemporaneamente il territorio è pieno di esperienze festivaliere, come Riminicinema, che però si è chiuso circa venti anni fa e che vedeva la direzione di Alberto Farassino, Roberto Silvestri e altre figure di rilievo. Qui a Rimini hanno portato Kathryn Bigelow, Melvin Van Peebles, Amos Gitai, e fino agli anni ’90 era un festival importantissimo. Ci sono state e ci sono storie di eccellenze cinematografiche, ma anche altro, essendo un territorio molto attento per esempio all’industria della moda e al manifatturiero. Si trattava quindi di riportare in un momento di crescita della cultura cinematografica sul territorio – in un territorio che comprende Rimini, Ravenna, Santarcangelo e altri – un festival che facesse assieme a un museo e a un’università impiantata non da molti anni un rilancio di tutti i comparti dell’audiovisivo. Rimini è il luogo dove si sono girate alcune delle serie Netflix più recenti, si comincia a parlare della Romagna Film Valley proprio per gli accordi con Netflix o per le docufiction del territorio, improvvisamente l’industria della realizzazione delle serie televisive è esplosa in Riviera. Qui è nata Laura Paolucci e la Fandango in qualche modo, Procacci è venuto più volte. È come se questa iniziativa si legasse a uno più ampio rilancio del settore produttivo, realizzativo, espositivo, festivaliero, e se noi andiamo indietro anche di cinque, otto anni non era questo. Nulla nasce mai per caso”.
Un incontro a più voci, direzioni, mestieri, che non a caso vede la stretta partecipazione di Elena Zanni della società Khairos, l’imprenditrice cinematografica che nel 2009 ha riaperto la sala cittadina del Settebello, strappando ai multiplex e ai centri commerciali il monopolio degli schermi locali, in un percorso di riconquista del discorso culturale e degli spazi che ha portato la sua società ad assumere nel 2018 la gestione del felliniano e restaurato Cinema Fulgor – e l’allargamento di questa rete non finisce qua, visto che il Fulgor riminese è partner dell’appena riaperto Teatro Cinema Politeama di Fano, a dimostrazione di una crescita culturale ed economica sana e collettiva; della presenza in giuria in ogni edizione del festival del ravennate Stefano Pucci, erede e amministratore delegato dell’omonima società Pucci – detentrice dei marchi Condiriso e Louit Frères –, nonché produttore del film di Matteo Vicino Lovers (2016), a suo modo un piccolo caso in quanto vincitore di numerosi premi in festival internazionali quali Lisbona, Londra e Fort Lauderdale e per diverso tempo privo di una distribuzione italiana; e dell’incardinamento all’interno della manifestazione del premio “Valpharma per il cinema”, che porta il nome del rinomato gruppo farmaceutico locale e indirizzato a dare visibilità al lavoro femminile nelle professioni filmiche.
Il volano, il catalizzatore di tutto questo è stato però, in un modo o nell’altro, il percorso che ha portato alla realizzazione del Fellini Museum. Inaugurato nell’agosto di quest’anno, il complesso museale è sotto tanti punti di vista l’emblema stesso della rinascita cinematografica della città, di più, del totale rilancio culturale di Rimini a seguito della desertificazione degli ultimi venti anni. Si tratta anche qui di un lavoro incastonato in una visione più ampia, che abbraccia siti e realtà diversi tra loro riuniti nell’idea di offrire un ampliamento dell’offerta cittadina spalmata su tutto l’anno e per tutti i tipi di pubblico, sia locale che turistico. Così il museo non solo si affianca alla riapertura e al rilancio del Teatro Galli e del PART - Palazzi dell'Arte di Rimini, ma diviene esso stesso struttura poliforme e diffusa, uscendo dalla sua collocazione nella rocca quattrocentesca di Castel Sismondo per distendersi nell’adiacente Piazza Malatesta e nel vicino Palazzo del Fulgor (l’edificio dove è collocato l’omonimo cinema). La sofisticazione dell’intervento è tale da avere tempi di realizzazione e inaugurazione diversi tra loro (la piazza sarà pronta a breve, mentre per il Palazzo del Fulgor ci vorrà ancora qualche mese), che una volta conclusi renderanno il centro della città una sorta di organismo sensoriale-ambientale capace di abbracciare torri, fontane, piazze, sculture, verde – la nuova identità della città rispetto alla sua collocazione culturale è così alterata, radicale in confronto al passato, che, ci dicono dal comune, si è dovuto stracciare e compilare ex-novo la presentazione per le pubblicazioni del Touring Club Italiano…
E il Fellini Museum incarna appieno questa dirompente visione. Scelto tra i Grandi Progetti Beni Culturali 2017-2018 del Ministero della Cultura, il museo è stato ideato e presentato dalla cordata vincitrice che vedeva riuniti – tra gli altri – Lumière & Co., Anteo, Studio Azzurro, Marco Bertozzi e Anna Villari, capaci di realizzare una struttura espositiva che è in continuo divenire, attraversabile e ricomponibile da ogni singolo visitatore, che si pone come luogo di fortissima sperimentazione per l’esposizione di quello che forse più di tutti non si può esporre – il cinema e i film. Le sedici sale del museo squadernano contenuti multimediali e installativi dei più disparati, accumulando cinque ore di materiale audiovisivo fatto di clip, interviste, pubblicità, musiche assieme a costumi, lettere, libri, spartiti. Ci sono il mare e la nebbia, le filze e le palle da demolizione, i seni e i confessionali. La rocca malatestiana sembra incubare le visioni felliniane che il visitatore sogna e dalle quali sembra essere sognato, giocando sulle altalene, aprendo botole, soffiando su una piuma. Tuttofellini, insomma.
Alla prossima uscita,
so long
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