La grande scommessa - #009: La parte del leone
La grande scommessa
- di Luigi Coluccio -
#009 - La parte del leone
Ciao,
questa è La grande scommessa, la newsletter di Film Tv sull’industria del cinema e dell’intrattenimento in arrivo nella tua casella di posta ogni giovedì – il giorno del crollo di Wall Street nel ’29 e il giorno propizio al gioco d’azzardo.
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Qual è la cosa che il cinema americano di cento anni fa aveva e che ora non ha più? Buster Keaton. Eppure la Hollywood del cinema muto era molto simile a quella di oggi, con le major che tentavano di strozzare gli indipendenti e gli indipendenti che cercavano di divincolarsi. Tra una frana e un treno in corsa, Keaton ha lottato anche in quell’arena, vincendo e perdendo tutto. Keaton era una grande scommessa.
Seconda parte del nostro dittico con ospiti un uno-due di firme esterne ma vicine, differenti ma affini. Questo giovedì è il turno di Gabriele Gimmelli, editor&critico che collabora con l’università di Bergamo, nostro spirito-guida nell’industria hollywoodiana degli anni ’20, quando tutto era silenzioso ma splendente lo stesso – se non di più. Seguendo i lineamenti del viso e della carriera di Buster Keaton scopriremo di più su quel piccolo mondo antico, così simile all’industria del cinema di oggi – solo più splendente.
“Il più grosso errore della mia vita”: così, nell’autobiografia Memorie a rotta di collo (My Wonderful World of Slapstick, 1960), Buster Keaton commentava la decisione di abbandonare nel 1928 il proprio studio per trasferirsi alla Metro-Goldwyn-Mayer. L’artefice dell’operazione, in realtà, era stato Joseph “Joe” M. Schenck, produttore di Keaton fin dal 1920, nonché suo cognato (era infatti il marito dell’attrice Norma Talmadge, sorella di Nathalie, prima moglie di Keaton). “Fino a quel momento Joe Schenck non mi aveva fregato”, dirà ancora l’attore-regista, “Non voglio dire che lo fece quella volta, ma fui stupido a lasciarlo decidere contro il mio parere”. Ora, secondo una certa vulgata cinefila – da sempre incline a leggere le vicende hollywoodiane con le lenti tardoromantiche della contrapposizione fra l’artista geniale e solitario e il sistema disumano e alienante dei Grandi Studios – il gesto di Schenck ha senz’altro tutti i connotati del tradimento: l’avido mercante che, in nome del Dio Dollaro, getta il malcapitato Keaton letteralmente tra le fauci del Leone. A che pro, dunque, tornare a parlarne oggi, a poco meno d’un secolo di distanza? Innanzitutto, per rendere giustizia al vecchio Joe Schenck (si pronuncia con entrambe le “c” dure). Un personaggio mitico, tra i fondatori dell’Academy of Motion Pictures Arts and Sciences (l’istituzione che dal 1929 assegna i Premi Oscar, per intenderci), con un’esistenza degna di un romanzo d’avventure. Nato nel 1878 nella Russia zarista e giunto quindicenne a New York, aveva mosso i primi passi nel mondo degli affari come fattorino per conto della malavita, in compagnia dei fratelli e del futuro musicista Irving Berlin; era passato poi ai parchi di divertimenti e infine, nel 1912, alla produzione cinematografica. Una carriera, quest’ultima, che fra alti e bassi (nel 1936 conobbe persino la galera, con l’accusa di evasione fiscale) sarebbe proseguita per più di quarant’anni. La migliore definizione di lui l’ha data la sceneggiatrice Anita Loos: “Joe sarebbe diventato un leader in qualsiasi campo avesse deciso d’impegnarsi. Aveva la tranquilla sicurezza di chi è nato per comandare”. All’inizio della nostra storia Schenck è il produttore di Roscoe “Fatty” Arbuckle, tra i comici più applauditi e pagati del periodo. Quando Arbuckle si lancia nel lungometraggio con l’appoggio distributivo della Famous Players di Jesse Lasky (la futura Paramount), Schenck decide di puntare su Keaton, uno dei migliori attori della compagnia. “Comprò gli Studios di Chaplin e li ribattezzò Keaton Studios”, ricorderà l’attore, “Mi assegnò la troupe di Arbuckle e mi propose un nuovo contratto, che consisteva in 1000 dollari la settimana, più il 25 percento dei profitti sui miei film”. Non solo: grazie alla sua abilità di venditore, Schenck riesce persino a negoziare con Marcus Loew, patron della Metro, un contratto a scatola chiusa per la distribuzione delle comiche dirette e interpretate da Keaton.
Com’era una volta è oggi
A questo punto viene da chiedersi per quale diamine di motivo, appena otto anni dopo, lo stesso Schenck avrebbe deciso di disfarsi del proprio attore di attore di punta per spedirlo alla MGM. E qui veniamo all’altra ragione per cui vale la pena di tornare su questa storia vecchia di un secolo. Il trasferimento di Keaton nella casa di Leo il Leone – leggi&rileggi il terzo numero della nostra newsletter – è infatti paradigmatico di una transizione più ampia, che vedeva ridisegnarsi equilibri e rapporti di forza, dopo la quale Hollywood non sarebbe più stata la stessa. Per molti versi, una situazione paragonabile a quella che, a cento anni di distanza, l’industria cinematografica Nordamericana sta attraversando. Sono questi infatti gli anni in cui si consolida definitivamente il sistema delle grandi Major, con tutta la potenza del loro apparato produttivo e distributivo (un aspetto che, come vedremo, avrà un certo peso anche nella vicenda che stiamo raccontando), a discapito degli indipendenti. Salvo qualche rara eccezione, fra le quali brillano Walt Disney e Hal Roach (lo storico produttore di Laurel & Hardy e della serie Our Gang, le nostre “Simpatiche canaglie”), tutti finiscono ben presto per chinare il capo o per farsi assorbire. La transizione tecnologica del sonoro sincronizzato (1927-1929) e il contemporaneo insorgere della Grande Crisi (1929) contribuiscono ad accelerare questa metamorfosi, che arriverà a stravolgere la fruizione stessa dello spettacolo cinematografico negli Stati Uniti. Sia pure con difficoltà, soltanto le Major potranno far fronte alla sfida posta dal nuovo medium da un lato e alla contrazione del mercato indotta dalla crisi dall’altro. A farne le spese è il cortometraggio, che fino ai primi anni Trenta era stata una vera e propria palestra di sperimentazione linguistica – ora considerato troppo dispendioso, nei circuiti minori cederà il posto alla doppia programmazione, aprendo la strada all’era dei B-movie. Sarà soprattutto la slapstick comedy a risentire di questo declino: da genere di primo piano gestito da una schiera di piccole case indipendenti, guidate dal talento artistico-imprenditoriale di alcuni brillanti total-filmmaker, si trasformerà via via in un riempitivo a basso costo, talvolta affidato al comparto B delle stesse Major. Va però detto che l’abbandono delle comiche a due o tre rulli era già iniziato da alcuni anni. Per ragioni artistiche, certo, ma soprattutto finanziarie: “Nell’accoppiata film-comica noi eravamo la carta vincente”, spiegherà Keaton in un’intervista del 1958, “perciò avremmo potuto benissimo produrre anche dei film lunghi e farci pagare 1500 dollari di noleggio, invece che 500”. Keaton avrebbe voluto realizzare immediatamente dei film a lungometraggio, ma si era dovuto scontrare con il parere negativo di Schenck. Dovrà aspettare il 1923, dopo che il successo di Charlie Chaplin con Il monello (1921) e di Harold Lloyd con Lupo di mare (1921) e Il talismano della nonna (1922) era riuscito a convincere anche i più perplessi. “Negli anni in cui tutti e tre andavamo forte, non avemmo nessun fallimento”, avrebbe ricordato Keaton nelle sue memorie. “I lavori di Chaplin incassavano in media 3.000.000 di dollari in quote d’affitto ai cinema. Quelli di Lloyd 2.000.000; i miei tra 1.500.000 e 2.000.000”. E i costi? “I miei film costavano dai 200.000 ai 220.000 dollari. Aggiungete il 35% della distribuzione e con una facile sottrazione otterrete i miei profitti. Io rifiuto di farlo perché lo trovo degradante e deprimente”.
In realtà, come ha ricordato Kevin Brownlow, il grande storico britannico del cinema muto, non è così facile stabilire quanto incassassero i film prodotti nella Hollywood di un secolo fa. Molto spesso, infatti, erano gli stessi produttori a dichiarare cifre molto più basse di quelle effettive, per evitare che il fisco si accanisse su di loro. Per questo motivo Senti, amore mio, il lungometraggio d’esordio di Keaton risulta aver incassato, negli Stati Uniti, “appena” 448.606 dollari complessivi; e il successivo La legge dell’ospitalità (1923), uno dei suoi capolavori, poco meno di 540.000. Quanto ai fallimenti: di certo Keaton non amava ricordarlo, ma la sua carriera registica non è stata affatto immune dai fiaschi. Anzi, sarà proprio una serie di insuccessi a mettere fine alla sua carriera come indipendente.
Per quanto possa sembrare strano, La palla nº 13, uno dei film preferiti di Keaton e oggi regolarmente ai primi posti nelle classifiche dei capolavori della storia del cinema, nel 1924 si rivelò il suo peggior risultato commerciale alla Metro. E malgrado pochi mesi più tardi la situazione si sia ristabilita grazie ai 680.000 dollari de Il navigatore, la serie negativa sarebbe ripresa nel 1925 con Le sette probabilità. Girato con scarsa convinzione da Keaton, che non apprezzava affatto il soggetto, impostogli da Schenck e tratto da una produzione di David Belasco, il film è oggi giustamente ricordato per lo spettacolare inseguimento conclusivo: eppure, all’epoca fruttò alla produzione soltanto 598.988 dollari. Né le cose miglioreranno con Io e la vacca (meno di 600.000 dollari d’incasso), un film a cui Keaton invece teneva molto. Sarà soltanto nel 1926, con Io e la boxe, che l’attore tornerà ai risultati commerciali di un paio d’anni prima: il film, che al debutto incassa più di Il pirata nero con Douglas Fairbanks, si rivelerà il maggior successo di Keaton al botteghino.
Come vinsero gli altri
Nel frattempo, sul versante produttivo-distributivo, le cose hanno già cominciato a cambiare. Loew ha stretto un accordo con Sam Goldwyn e Louis B. Mayer, dando vita nel 1924 alla Metro-Goldwyn-Mayer, dalla potente rete distributiva. Come vicepresidente e responsabile della produzione, Mayer suggerisce il ventiquattrenne Irving Thalberg, il boy wonder che imprimerà una svolta decisiva alla produzione hollywoodiana negli anni a venire. Joe Schenck, invece, è nominato a capo della United Artists, la compagnia indipendente fondata nel 1919 da Chaplin, D.W. Griffith e dalla coppia Fairbanks-Pickford. A Hollywood la UA godeva di un prestigio tutto particolare, con quella parola – “Artists” – che evocava la centralità dell’Arte rispetto al Mercato. Un prestigio di facciata, però: quando Schenck vi approda nel 1926, la UA è una compagnia che può ancora contare sul successo personale dei suoi divi-fondatori (Fairbanks e Chaplin soprattutto), ma per il resto fatica a tenere il passo, priva com’è dei mezzi e della rete distributiva delle sempre più potenti Major. Suona quindi come un vero e proprio atto di coraggio da parte di Schenck il suo via libera al progetto più ambizioso di Keaton, Come vinsi la guerra (1926). Il film, ambientato durante la Guerra civile americana, venne realizzato con grande dispiego di mezzi e senza badare alle spese, con tanto di anteprima internazionale (a Tokyo, il 31 dicembre 1926). Sul set, Keaton si rivela una sorta di via di mezzo fra Werner Herzog (per la spericolatezza) e Stanley Kubrick (per il meticoloso perfezionismo). Anni dopo, Donald O’Connor lo definirà addirittura “il D.W. Griffith del cinema comico”. I costi, intanto, lievitano fino a sfiorare il mezzo milione di dollari; ma Schenck, confortato dai copiosi incassi di Io e la boxe, decide di chiudere un occhio. Purtroppo per lui, Come vinsi la guerra si rivelerà un cocente insuccesso sotto tutti i punti di vista. Oggi il film è considerato un capolavoro, uno degli esiti più alti della storia del cinema; eppure, all’epoca, la trovata di mescolare la comicità all’epica in costume fece storcere il naso alla critica: “Non c’è nessun momento nel film capace di suscitare entusiasmo” (Variety); “Non è neanche paragonabile ai precedenti film di Keaton” (New York Times); “Molte delle gag verso la fine del film sono di un cattivo gusto così grossolano che lo spettatore sensibile è quasi tentato di chiudere gli occhi” (Life). “Un inglese come lei non può capire come la Guerra civile abbia sconvolto questo Paese”, spiegherà molti anni dopo Louise Brooks, grande ammiratrice di Keaton, a Kevin Brownlow: “Ci sono state migliaia di morti, gente che combatteva contro la propria famiglia. [...] Molti non andarono neppure a vederlo. E quelli che vi andavano rimanevano sconcertati”. Le reazioni del pubblico, in effetti, non furono troppo diverse. Malgrado la buona partenza a New York (quasi 51.000 dollari nei primi sette giorni di programmazione), Come vinsi la guerra ottenne risultati deludenti in quasi tutte le città maggiori. Non conosciamo con esattezza gli incassi complessivi del film: alcuni, come il biografo di Keaton Tom Dardis, sostengono che abbia guadagnato a malapena 475.000 dollari, mentre altri, come lo storico del cinema David Pearson, dicono che ne abbia ottenuti 900.000 – una cifra cospicua che però, sottraendo gli elevati costi di produzione, risulta a conti fatti alquanto modesta. Riguardo invece alle reali cause dell’insuccesso, Brownlow punta su due fattori principali: una velocità di proiezione troppo bassa (20 o addirittura 16 fotogrammi al secondo invece di 24 o 25: sorprendentemente, il film venne girato a una velocità molto simile a quella del cinema attuale) e, soprattutto, una rete di distribuzione troppo limitata come quella della UA, non certo in grado di competere con quelle a disposizione delle Major.
I due titoli successivi confermano del resto quest’impressione. E se Tuo per sempre (1927) appare quasi il tentativo, da parte di Keaton, di rifarsi al fortunato Viva lo sport (1925) dell’amico Harold Lloyd (ma l’irriverente pessimismo keatoniano colora il finale di una sfumatura cupa del tutto assente nelle opere del collega), Io e... il ciclone (1928) segna invece il ritorno di un Keaton in ottima forma, a suo agio sia con la commedia di carattere (la vicenda alla Montecchi-Capuleti della prima parte) sia con i tempi dilatati dell’epica (la spettacolare sequenza del ciclone nella seconda). Ma siamo ormai agli sgoccioli: nel maggio 1928 il cinema sonoro attira sempre più pubblico, e la UA continua a non avere la forza sufficiente per portare in sala gli spettatori. Il film guadagna in tutto il mondo oltre 700.000 dollari, ma l’incasso netto è troppo risicato e anche questa volta le critiche non sono generose. Joe Schenck non attende nemmeno l’esito deludente di questa terza prova. Contatta il fratello Nicholas, presidente della Loew’s Inc., la società che controlla la MGM, pianificando “in famiglia” una fusione: in dote avrebbe portato il suo attore più popolare. Il contratto è vantaggioso, Thalberg è un fan dichiarato di Keaton e la MGM la casa più prestigiosa che un regista possa sognare in quel momento. Persino Cecil B. DeMille, uno dei più quotati indipendenti di Hollywood, aveva rescisso il contratto di distribuzione con la Pathé per accasarsi là (ma farà marcia indietro pochi anni e qualche insuccesso dopo). Keaton riceve la notizia della stipula mentre è ancora sul set di Io e... il ciclone. Sta per girare la scena più pericolosa del film, quella in cui la facciata della casa gli crolla addosso lasciandolo incolume. Non accoglie con gioia la notizia: “Pensavo che mi sarei sentito perso a fare i miei film in uno studio così grosso”, ricorderà nella sua autobiografia. Chiede dapprima consiglio a Chaplin e a Lloyd, che cercano di dissuaderlo; poi tenta la carta di una nuova distribuzione, recandosi alla Paramount di Adolph Zukor, che già si occupava dei film di Lloyd. Ma mentre sta parlando, si accorge che sulla scrivania di Zukor c’è una direttiva di Will Hays, lo zar di Hollywood, l’inamovibile presidente della Motion Picture Association of America (MPAA) nonché il responsabile del famigerato codice di autocensura che da lui prende il nome. La direttiva era perentoria: “Buster Keaton è di esclusiva proprietà della Metro-Goldwyn-Mayer”. A Keaton non resta che rassegnarsi: trascorrerà alla MGM quattro anni, con margini di controllo creativo sempre minori. Anni travagliatissimi, di ripetuti conflitti con la produzione, di successi commerciali e insuccessi personali (Sidewalks of New York, che Keaton aveva odiato, arrivò a incassare nel 1931 oltre 800.000 dollari, più dei suoi maggiori successi indipendenti), di alcolismo e di disavventure matrimoniali. Il rapporto con la compagnia termina nel 1932 con un clamoroso licenziamento, che segnerà di fatto il tramonto di Keaton come interprete di primo piano. Dal 1937, come molti comici del muto (Harry Langdon, per esempio) si riciclerà come gagman per altri attori. “Ti sto solo cedendo a mio fratello Nick”, gli aveva detto Joe Schenck. “Lui ti darà tutto quello che vuoi. E sai bene, Buster, che io e mio fratello siamo sempre stati soci in affari. Sarà come se tu lavorassi per me”. “Stai dicendo che non ho scelta?”, aveva replicato l’altro, ironico. “Joe sorrise e si strinse nelle spalle”, ricorderà Keaton. Ovviamente no, non c’era scelta.
Gabriele Gimmelli è Dottore di ricerca (PhD) in Studi umanistici interculturali e collabora con l’Università di Bergamo. Editor di Doppiozero, scrive di cinema e di letteratura per Blow Up, Film Tv e Filmidee. Oltre a numerosi saggi apparsi in riviste e volumi collettivi, ha pubblicato la monografia Grandi Affari. Laurel & Hardy e l'invenzione della lentezza (Mimesis, 2017) e curato l’opera narrativa di Aldo Buzzi (Tutte le opere, La nave di Teseo, 2020).
Alla prossima (decima) settimana,
so long
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